Gli ordini di demolizione pendono su case, strutture agricole, stalle. Un’aperta violazione della IV Convenzione di Ginevra che negli anni ha portato allo spopolamento dell’Area C della Cisgiordania.

Casa demolita da Israele nel villaggio di Al-Khader, a Betlemme (Foto: MaanImages/Luay Sababa)

Casa demolita da Israele nel villaggio di Al-Khader, a Betlemme (Foto: MaanImages/Luay Sababa)

Gerusalemme, 7 settembre 2015, Nena News – Una delle politiche più odiose per obiettivi e modalità: la demolizione di case palestinesi nei Territori Occupati da parte delle autorità israeliane. Non trascorre settimana senza che le agenzie di stampa locali non riportino della distruzione di abitazioni civili tra Gerusalemme e la Cisgiordania: i bulldozer israeliani arrivano, accompagnati in genere da un ingente numero di soldati e dai funzionari dell’Amministrazione Civile (ente israeliano preposto alla gestione ‘amministrativa’ dei Territori), danno alla famiglia palestinese pochi minuti di tempo per svuotare le stanze dei beni più preziosi, minuti in cui si deve decidere in fretta cosa portare con sé e cosa sacrificaree poi procedono alla distruzione.

Poche decine di minuti e la casa (che sia in cemento o una semplice baracca beduina) è ridotta ad un cumulo di macerie. La famiglia si ritrova senza un tetto sulla testa. I motivi con cui Israele giustifica tale pratica – diretta violazione del diritto internazionale e della IV Convenzione di Ginevra – sono svariati: è stata costruita in Area C  della Cisgiordania (sotto il diretto controllo militare e civile israeliano) senza permesso, permesso che viene accordato nell’1-2% dei casi; è stata costruita nei quartieri palestinesi di Gerusalemme, ovviamente senza permesso che in Città Santa ai palestinesi non viene quasi mai rilasciato; o è la forma di punizione collettiva imposta alla famiglia di un prigioniero politico, di un ricercato, di un sospetto. Altra eclatante violazione del diritto internazionale.

Una pratica terribile per gli effetti che ha sulle comunità locali e odiosa perché sottende al reale obiettivo di costringere la popolazione palestinese a lasciare gradualmente l’Area C e Gerusalemme per fare spazio a nuove colonie israeliane: basti pensare che oggi, a oltre 20 anni dagli accordi di Oslo che hanno diviso in Area A, B e C la Cisgiordania, i residenti palestinesi in Area C sono rimasti solo 300mila, contro gli oltre 340mila coloni israeliani.

Il divieto di costruire si allarga di conseguenza anche alle autorità palestinesi: all’Anp, il governo di Ramallah, è vietato pianificare, progettare, ristrutturare o costruire infrastrutture per servire la propria popolazione in Area C, che si tratti di reti idriche, elettriche, zone industriali, strade, scuole, cliniche. Servizi che, allo stesso tempo, non vengono forniti dal potere occupante – come previsto dal diritto internazionale – ovvero Israele, lasciando la popolazione palestinese in Area C abbandonata a se stessa.

Oggi della pratica in questione c’è chi dà i numeri: le Nazioni Unite. In un rapporto pubblicato oggi l’agenzia Onu OCHA riporta che ad oggi sono 13mila le strutture private palestinesi sotto ordine di demolizione da parte delle autorità israeliane. “Seppur una minoranza degli ordini sia stata già eseguita – spiega l’OCHA – questi ordini non scadono mai e lasciano i proprietari di strutture in uno stato cronico di incertezza e minaccia. Quando gli ordini vengono implementati, portano alla perdita della casa e dello stile di vita, alla povertà e alla sempre maggiore dipendenza dagli aiuti”.

Un numero enorme: 14mila ordini sono stati spiccati tra il 1988 e il 2014 e, di questi, 11mila sono ancora pendenti su case, stalle, strutture agricole. Degli 11mila* ordini pendenti, 570 sono classificati come da implementare immediatamente (nella prima metà del 2015, sono state così demolite 245 strutture in Area C), 2.454 sono sospese in attesa di procedimenti legali e 8.110 sono classificati come “in process”.

Circa 4.500 riguardano strutture di proprietà dei palestinesi beduini residenti a est di Gerusalemme e sui quali si concentra il piano di trasferimento forzato verso township a Gerico per fare spazio all’implementazione del cosiddetto progetto E1, “la Grande Gerusalemme”. Ovvero l’espansione delle colonie tra Gerusalemme e il blocco di insediamenti di Ma’ale Adumim, un piano che se realizzato spezzerà letteralmente a metà la Cisgiordania.

Al dato delle Nazioni Unite va affiancato quello delle stesse autorità israeliane: secondo l’Amministrazione Civile di Tel Aviv tra il 2010 e il 2014 palestinesi hanno fatto richiesta per 2.020 permessi di costruzione in Area C. Ne sono stati accolti da Israele 33, ovvero l’1,5%. Un dato che spiega bene perché i palestinesi non ne chiedano più: il permesso costa anni di burocrazia e decine di migliaia di shekel, per poi sentirsi dire – nel 99% dei casi – di no. E allora si costruisce lo stesso, senza permesso, nella speranza che la propria casa possa salvarsi dalla demolizione.

Di nuovo, una pratica vietata dal diritto internazionale: secondo l’art.53 della IV Convenzione di Ginevra al potere occupante “è vietato distruggere beni mobili o immobili appartenenti individualmente o collettivamente a persone private, allo Stato o a enti pubblici, a organizzazioni sociali o a cooperative, salvo nel caso in cui tali distruzioni fossero rese assolutamente necessarie dalle operazioni militari”. Nena News

*Nota bene: il numero di ordini pendenti (11mila) è diverso da quello delle strutture minacciate (13mila) perché alcuni ordini di demolizione fanno riferimento a più di una struttura

 

http://nena-news.it/territori-palestinesi-allarme-onu-13mila-strutture-minacciate-di-demolizione-da-israele/